Oggi l’ultimo dei 5 racconti che ci hanno accompagnato in queste ultime 5 settimane. Ringraziamo i ragazzi per la loro forza e il loro grande coraggio.
Nicholas, 24 anni.
Lunedì 25 febbraio 2013 il cielo era quasi completamente coperto, un timido sole rendeva un po’ più sopportabile il freddo, presagio della nevicata che da lì a qualche giorno avrebbe imbiancato Bergamo. Per me sarebbe dovuto essere il primo giorno di lezione del secondo semestre del primo anno di Ingegneria meccanica. La sessione d’esame invernale che si era appena conclusa era stata positiva: solo chimica mi aveva impedito di fare 5 su 5.
Ma alle 8.30 non ero alla facoltà di Ingegneria di Dalmine, mi trovavo nella mia auto nel centro di Bergamo. Avevo appena posteggiato fuori dalla clinica dove da poco più di una settimana era ricoverato mio padre. Chiusa la portiera mi diressi verso l’ingresso della struttura e poi subito all’ascensore che mi avrebbe portato al reparto di neurologia. Durante quei pochi minuti nella mia testa continuava a martellare la stessa domanda: “Cosa mi dirà il dottor M.?”
Arrivato in reparto, entrai nella stanza dove c’era papà. Era nel suo letto, aveva già fatto colazione e teneva tra le mani un settimanale di enigmistica: di tutte le parole crociate che aveva provato a fare, ne aveva compilati solo pochi spazi. Non era mai stato un appassionato di quel tipo di passatempi, ma da quando era lì sembrava proprio esserne annoiato. Anzi, lo era davvero: prendeva in mano la matita, leggeva le definizioni, scriveva due o tre parole e poi scorreva velocemente le altre pagine. Alla fine riponeva il libretto sul comodino, prendeva il telecomando e accendeva la TV.
Da tempo ormai c’era qualcosa in lui di diverso, ma io non me ne ero mai veramente accorto. L’anno precedente ero stato impegnato con gli esami di maturità prima e con l’inizio del percorso universitario poi. Come un qualsiasi ragazzo quasi ventenne avevo altri pensieri per la testa: c’erano lo studio, le valutazioni, gli amici e i sogni per il futuro. O forse non avevo dato il giusto peso a tutti quei segnali, da quella specie di balbuzie che accompagnava i suoi discorsi, ad alcuni comportamenti bizzarri, fino alla sempre più crescente apatia che mostrava nei confronti delle persone a cui voleva più bene: sua moglie e i suoi figli. Chi aveva realmente percepito il suo cambiamento era stata mia madre. I litigi tra lei e papà erano divenuti all’ordine del giorno, non lo riconosceva più… Solo mamma aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Nei mesi precedenti aveva tentato diverse volte di convincermi che lui non stesse bene, ma le mie barriere erano crollate solo quando mi aveva raccontato un episodio accaduto il 17 dicembre, il giorno in cui mia sorella Delphine era stata operata ai calcoli. Delphine all’epoca era ancora minorenne e per acconsentire all’intervento era necessaria la firma di entrambi i genitori. Al momento di apporvi la sua però mio padre si era bloccato con la penna in mano e sembrava non ricordarsi il proprio nome.
Era stata mia zia S., una delle due sorella di mia madre, a suggerirci di affidarci al dottor M. per capire cosa stesse accadendo a papà. E poco dopo averlo salutato ero già nel corridoio antistante gli ambulatori ad attendere proprio il primario della clinica, che sapevo sarebbe arrivato alle 9. Stavo ripensando al venerdì precedente, quando io e mia madre avevamo chiesto al medico di turno quali fossero i risultati della risonanza magnetica a cui papà era stato sottoposto qualche giorno prima. Sebbene non fosse il neurologo che seguiva il suo caso, aveva acconsentito a leggerci il responso dell’esame. Era uscito dall’ambulatorio, lasciando me e mia madre in attesa per diversi minuti che a entrambi erano sembrati ore. Nessuno dei due riusciva a proferire parola, nella stanza c’era solo un assordante silenzio contrapposto all’incessante brusio dei nostri pensieri. Solo le parole del dottore, appena rientrato nella stanza, erano riuscite ad interromperlo: ampliamento degli spazi liquorali periencefalici. Questo era scritto sul referto della risonanza, ma a noi quelle parole non dicevano nulla, se non che qualcosa nel suo cervello era aumentato di volume.
Ripensavo anche alle parole che il dottor M. mi aveva detto in uno stanzino vicino all’ambulatorio dove aveva appena visitato mio padre, il giorno in cui era stato ricoverato per fare tutti gli accertamenti del caso. Non era la prima occasione in cui lo vedeva, ma in quella circostanza per la prima volta si era sbilanciato: a suo parere la possibilità più concreta era che papà avesse subito delle leggere ischemie transitorie prima o durante l’intervento al cuore a cui era stato sottoposto. Nel 2007 infatti era finito sotto i ferri per la sostituzione della valvola aortica, il cui malfunzionamento causava un eccessivo sforzo del suo cuore. La seconda ipotesi che mi aveva proposto era quella di una sorta di depressione da stress, visti i suoi numerosi impegni tra lavoro e famiglia e il poco riposo che si concedeva.
Continuavo a guardare l’orario sul cellulare mentre pensavo a tutto ciò, in attesa che arrivassero le 9. E in effetti arrivarono, così come il primario.
“Buongiorno, ha un attimo?” gli chiesi.
“Un secondo solo. Prendo il referto della risonanza di papà e la faccio accomodare nello studio, così possiamo parlare tranquillamente” mi rispose, sparendo nello stesso stanzino in cui mi aveva spiegato le sue ipotesi qualche giorno prima.
Sul suo volto c’era un sorriso e ricordo ancor oggi come il fatto che sorridesse mi era sembrato strano, perché non lo avevo mai visto farlo. E soprattutto perché quel sorriso mi appariva forzato, non naturale.
“Prego” mi disse un attimo dopo essere uscito dallo stanzino, aprendomi la porta dell’ambulatorio.
Un attimo dopo era seduto di fronte a me, dall’altro lato della scrivania e appoggiandovi la busta si schiarì la voce: “Poco fa ho visto le immagini della risonanza: hanno evidenziato qualcosa di diverso rispetto a quello che pensavo.”
Cosa significa? È un buon segno? Oppure no?
“La risonanza non ha evidenziato ischemie” continuò il primario “non c’è alcun segno di ischemia, nemmeno piccola”
Fece una pausa.
“Credo anche che non si tratti di depressione da stress”
Se la prima frase mi aveva fatto tirare un mezzo sospiro di sollievo, queste parole al contrario mi confondevano! Che cosa può essere allora la causa dei disturbi di papà? In quel momento volevo solo che il dottore continuasse.
“Le immagini della risonanza mostrano che alcune zone del cervello di suo padre si stanno ritirando…”
Ma il referto non parlava di un aumento? Volevo interromperlo e cercare di capirci qualcosa in più, ma iniziavo ad essere spaventato ed il terrore mi bloccò!
“… in particolare c’è una leggera diminuzione del volume delle zone frontale e temporale. Penso che suo padre sia nella fase iniziale di una malattia neurodegenerativa che si chiama Afasia Primaria Progressiva, una variante della Demenza Frontotemporale”
Neurodegenerativa? L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa… il nonno ha l’Alzheimer, sta pian piano perdendo ogni capacità e peggiorerà giorno dopo giorno finché morirà!
Una scarica di adrenalina mi aveva investito come un tir, avevo caldissimo e mi sembrava che il mio cervello stesse iniziando a fondere.
Ha detto neurodegenerativa! Ha detto neurodegenerativa! Non è possibile… anche il papà non mi riconoscerà più? Si dimenticherà le cose? Anche lui non sarà più autonomo? Morirà? No! Non voglio che muoia! Non può morire… Lui è mio papà, nostro papà… E noi come faremo senza di lui? Non ha nemmeno 53 anni, come è possibile? Il nonno ne ha quasi 80! Le malattie degenerative colpiscono gli anziani, no?
Ormai i pensieri nella mia testa erano fuori controllo, era bastata quella parola, neurodegenerativa, a far sì che il terrore prendesse il sopravvento!
Probabilmente nel frattempo il primario aveva continuato a parlare, ma io non avevo sentito nulla… Ad un certo punto mi resi conto che mi stava guardando in silenzio, come se stesse cercando di leggere tra i miei pensieri.
“Mio nonno ha l’Alzheimer. Questa malattia è simile all’Alzheimer?” furono le uniche parole che riuscii a pronunciare. L’adrenalina nel mio corpo stava scemando, ma io avevo ancora caldo. O meglio, stavo sudando freddo, come se mi fossi appena svegliato dopo un incubo terribile.
“La Demenza Frontotemporale è una malattia neurodegenerativa come il morbo di Alzheimer” iniziò il medico “ma ha dei sintomi e uno sviluppo diverso”.
Questa volta ero riuscito ad ascoltare le sue parole, ma di certo non ero tranquillo. Volevo solo capire cosa fosse quella diavolo di malattia!
“Anzitutto la perdita della memoria non è tra i sintomi della Frontotemporale, per cui a suo padre non capiterà di non riconoscervi, come invece succede al nonno”.
Tirai un primo sospiro di sollievo. Forse non è così grave come avevo pensato…
“Questo tipo di demenza provoca invece una progressiva perdita della parola e genera nel malato dei comportamenti insoliti. Ad esempio, come avete notato lei e sua madre, negli ultimi tempi suo padre è più distaccato e meno interessato alla famiglia.”
Tra le altre cose, mi spiegò che questa malattia degenerativa colpisce in età meno avanzata rispetto alle altre e che è molto meno conosciuta.
Tutto quello che mi diceva generava in me reazioni contrastanti: da una parte mi sembrava che i sintomi che mi descriveva fossero meno gravi di quelli che avevo immaginato, dall’altra però continuavo ad immaginare mio papà non più autonomo, incapace di intendere e volere e senza più voce.
Alla fine, mi spiegò che, per quanto fosse convinto di quella sua prima diagnosi, ne avrebbe avuto la certezza assoluta solo dopo aver ricevuto i risultati di altri due esami a cui voleva sottoporre papà nei giorni successivi. Non so se lo disse perché aveva percepito la mia agitazione o perché era la prassi. Quello che so è che le sue ultime parole non fecero altro che alimentare, per qualche giorno ancora, una flebile speranza a cui forse però non credevo nemmeno io.
Ricordo che, uscito dallo studio del primario, gli strinsi la mano, lo guardai allontanarsi, ma non mi diressi alla stanza di mio padre. Andai invece nella sala d’attesa e mi sedetti vicino alla finestra. Non so quanto tempo passai su quella sedia nera, forse mezz’ora, forse un’ora o forse più…
Guardavo il cielo plumbeo che contrastava i tetti marroni e neri dei palazzi vicini. Guardavo il fumo grigio uscire dai camini. Intravedevo le mura di Città Alta e poi tornavo al cielo grigio. E nel frattempo pensavo…
Pensavo a mio papà, pensavo alla malattia che il dottore mi aveva appena descritto, pensavo a cosa sarebbe successo, a come avremmo fatto. Pensavo alle mie sorelle e a mio fratello Michael, il più piccolo, che aveva appena sei anni. Pensavo a mia madre, a quanto male sarebbe stata nell’apprendere la notizia. Decisi in quel momento che non gli avrei raccontato nulla di quello che mi aveva detto il primario: gli avrei spiegato solo che papà sarebbe stato sottoposto ad altri esami, ma che sicuramente non si trattava di ischemie. Mi convinsi che in quel momento sarebbe stato il modo migliore di gestire la situazione, perché non sarei riuscito a reggere anche il suo shock. Già, lo shock… Mi resi conto che ancora non avevo pensato a me… E come avrei fatto io? Io non ero come mio papà, forte e sicuro di sé! Io non sapevo assolutamente nulla di come funzionava la burocrazia, se non per quel poco che mi aveva insegnato lui. Come avrei fatto a prendermi cura al tempo stesso di lui, delle mie sorelle, di mio fratello e di mia mamma? Lui sarebbe riuscito ma io non ne sarei mai stato capace…
Come faremo? Come farò? Quanto peggiorerà? E quanto velocemente? Magari esistono delle terapie che possono rallentare la malattia… il dottor M. mi ha detto che non ci sono cure ma non ha parlato di terapie, magari esistono davvero! Ma che diavolo di malattia è questa? E perché proprio lui? Con tutte le persone che ci sono al mondo doveva colpire proprio lui? Non si merita una cosa del genere! Ha sempre dedicato tutto se stesso alla famiglia: a noi! Ed io come faccio ora? Come faccio a tornare da papà e sorridergli? Come faccio a dirgli che va tutto bene? E se si accorge che sto fingendo? Cosa gli dico? Io non ce la faccio ad alzarmi… non ce la faccio…
Da quella sedia nera mi alzai, tornai da mio papà e gli sorrisi. Lui non mi chiese nulla. Probabilmente fu l’unica volta che ringraziai l’apatia che lo aveva colpito… Poco più tardi arrivò mio zio F., uno dei due fratelli di mio padre. Gli raccontai tutto. Cercai di ripetergli esattamente ciò che il medico mi aveva detto e insieme decidemmo di aspettare gli esiti dei successivi esami prima di parlarne con qualcun altro, perché forse la diagnosi era sbagliata. In fin dei conti era stato lui stesso a dire di non avere ancora l’assoluta certezza di quell’ipotesi.
Tornato a casa riuscii a mostrarmi sereno e a recitare la parte che mi ero imposto. Cercai di tenermi il più impegnato possibile per non dar modo ai pensieri di tornare a bussare alla porta della mia testa.
La giornata passò. Arrivò la notte e non appena mi infilai sotto le coperte, nel buio e nel silenzio della mia camera, i pensieri tornarono come un fiume in piena e con loro le paure. Piansi.
Perché lui? Perché proprio lui? Cosa ha fatto di male per meritarsi una malattia del genere?
Passai ore chiedendomelo invano, poi fece capolino la stanchezza ed allora mi asciugai un’ultima volta le lacrime abbandonandomi finalmente al sonno.
Ma prima mi chiesi una cosa: cosa farebbe papà al posto mio?
Questa volta la risposta la conoscevo.
Nei tre anni e mezzo successivi non ho più pianto pensando a mio papà, non me lo sono più concesso. In realtà non mi sono nemmeno permesso di fermarmi a pensare a lui, a quello che gli stava succedendo e a cosa sarebbe accaduto.
Sarebbe stato troppo doloroso per me e non mi avrebbe permesso di essere sereno nello stargli accanto, nell’aiutarlo a pronunciare le parole che non riusciva a trovare, nell’imboccarlo, nell’accompagnarlo in bagno, nel sollevarlo quando non si reggeva in piedi e nel appoggiarlo nel letto quando invece era troppo rigido per sedersi, nello spingere la carrozzina, nel vederlo deperire giorno dopo giorno… Ma soprattutto nel farlo ridere! Il suo sorriso è l’elemento costante in ogni ricordo che io, le mie sorelle e mio fratello abbiamo di quei tre anni e mezzo in cui ogni momento passato con papà era un momento di fatica fisica e psicologica, ma era anche e soprattutto il più bel momento che quella giornata ci aveva regalato! Ed il suo sorriso è ancora oggi un’inesauribile fonte di gioia e serenità per tutti noi! Una fonte a cui attingiamo quando siamo tra noi per ricordare i momenti buffi che abbiamo vissuto insieme accanto a lui, oppure quando, dopo una giornata no, abbiamo bisogno di un pensiero che ci riporti il sorriso, oppure ancora quando la vita ci pone di fronte degli ostacoli che sembrano insormontabili, ma che in realtà fanno molta meno paura se affrontati con il sorriso giusto!
Nicholas